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Christiane Veschambre: Le parole povere / Les Mots pauvres. Frammenti / Extraits.

https://www.potlatch.it/wp-content/uploads/2015/03/Veschambre-Le-parole-povere-estratti.mp3

Le parole povere

(frammenti)
.

*

L’altra mattina mi sono risvegliata muta. Non me ne sono accorta subito perché ero sola nella stanza. Mi sentivo felice della giornata da vivere. Piena di un sentimento di libertà e di leggerezza. Mi sono stiracchiata sbadigliando, senza rumore, mi sono alzata, sono andata a prendere un indumento nel bagno e mi sono diretta verso la cucina dove ti sentivo cantare. Ho sospinto la porta, ti ho sorriso, mi hai chiamato col mio nome, e ti ho risposto col tuo. Cioè ho aperto la bocca, ho formato con le mie labbra le due sillabe amate, e non è venuto fuori alcun suono. Tu hai riso, in principio, di vedermi ripetere la mia mimica silenziosa, ti sei avanzato verso di me per prendermi nelle tue braccia e ti sei fermato. Mi hai domandato che cosa avessi, io non ho potuto risponderti. Infine ho preso sul buffet la carta dove si scrivono le commissioni e ho scritto: “Non posso più parlare.” E mi sono messa a piangere.

*

Mi hai domandato se ti udissi bene. Io ti ho fatto segno di sì. Mi hai detto allora che non era niente, che dovevo aver preso freddo senza rendermene conto, che era senza dubbio un forte abbassamento di voce. Sei andato a cercarmi delle compresse nel tuo studio. Mi hai stretto molto forte fra le tue braccia, e quando ho poggiato la mia mano sul tuo petto, all’altezza del cuore, non ho avuto il tempo di soffrire di non poter, come d’abitudine, pronunciare il tuo nome d’amore: attraverso la lana del maglione, la sensazione sotto il mio palmo delle pulsazioni, del loro ritmo e del loro volume, quella del calore del sangue interno, mi ha di colpo interamente assorbita.
Prima che tu andassi a fare visita ai malati, ti ho sorriso.

*

In capo a una settimana, si è dovuto accettare il fatto che non si trattava di un abbassamento di voce. Ma io lo sapevo dall’inizio. E credo che anche tu l’hai saputo molto presto. Sono pertanto, dietro tuo consiglio, andata a vedere uno specialista che ha auscultato la mia gola, esaminato, con una piccola lampada fissata alla fronte, il fondo della mia cavità orale, ha contemplato a lungo le radiografie in cui figuravano i fusi delle mie corde vocali, mi ha fatto parecchi test auditivi. Alla fine, mi ha dichiarato che non avevo niente, che tutto andava bene (mi dava piccole pacche sulla schiena), che le mie difficoltà attuali non erano di sua competenza, che avrei dovuto forse vedere in un altro settore. Poiché, ovviamente, io non gli rispondevo niente, mi ha mostrato col dito, come se fossi stata sorda, l’ammontare del suo onorario che aveva scritto su un foglio.
Mi sono sentita sollevata di ritrovarmi fuori, perché mi ero annoiata, e soprattutto perché sfuggivo al forte odore di questo uomo che puzzava, sì è così, puzzava di cane.

*

Oggi ho passato la mia giornata a piangere. Ho cominciato fin dal risveglio, ho provato ad alzarmi ma mi sono immediatamente coricata di nuovo e sono rimasta, a porte chiuse, nella camera.
Piango senza rumore, salvo quello del tirar su col naso e degli stropiccii dei fazzoletti di carta. Singhiozzo silenziosamente. Ho pianto fin che ne avevo bisogno, e ne avevo un bisogno molto vasto. Non avevo mai pianto in così grande quantità, così profondamente, così tristemente. Oggi era una giornata d’inverno, è stato buio fin tardi al mattino, è stato buio presto la sera.
Addormentandomi, con le narici screpolate e gli occhi gonfi, ho sognato che ero in piedi su un ripiano del muro, e che usciva dalla mia gola il canto di un uccello notturno.

*

Dunque non posso più lavorare. Poiché l’essenza del mio lavoro consiste nel parlare. In cambio, del denaro veniva versato sul mio conto in banca. Questa parola mi maneneva. Ho preso piacere ad immaginare cosa sarebbe successo se mi fossi recata, come d’abitudine, sul mio luogo di lavoro e vi fossi rimasta silenziosa. Lo stupore, l’incomprensione e, per finire, lo scandalo che ciò avrebbe suscitato. Il disordine provocato dalla costrizione in cui mi trovo di dover tacere. Ed ho prolungato la mia fantasia rappresentandomi il professore inesorabilmente silenzioso davanti ai suoi alunni, il giornalista della televisione che mima gli annunci delle notizie quotidiane, la corte d’assise percorsa dal solo rumore di maniche svolazzanti di magistrati ammutoliti, l’universitario ridotto, al momento di sostenerla, a vedere crollare la sua tesi per difetto di replica. E molti altri luoghi che mi sono divertita a immaginare paralizzati da una perdita di parola così improvvisa quanto quella che mi è toccata.
Questa fantasia è stata la mia prima liberazione.

*

Non mi abituo a non poter più parlare, al fatto che nessun suono possa uscire dalla mia bocca. Mi aspetto che tutto ciò ritorni. Soffro.
Ma il mio silenzio mi fa bene.

*

Passo di emozione in emozione. Nel dire questa cosa vedo un fiume che si passa a guado saltando da una pietra all’altra. Tra due pietre, il vuoto. Il piede percepisce ognuna nella sua forma differente, angolosa o rotonda, piana o inclinata. Una spina o una piccola piattaforma dove riposarsi. Ogni volta si rinnova il contatto con la freschezza nata dall’acqua, ogni volta qualche cosa vive sotto la pianta del piede, che si propaga a tutto il corpo.
Non so perché è questa immagine che mi viene per dire le emozioni che si impadroniscono di me ad un ritmo irregolare, imprevedibile. Non sono dei movimenti superficiali, manifestazioni dell’emotività, ma momenti in cui si avvicina il sentimento della vita. Momenti vivi. Tra l’uno e l’altro, tempi morti.

*

Imparo la paura.
Penso di non aver avuto infanzia. Questa infanzia in cui si è abbandonati al sorgere. Non ho potuto essere paralizzata, o divorata, dalla paura. Incendiata, decomposta dall’inatteso. Mi sono subito protetta dall’ignoto. Ho sempre parlato.
Anche quando non parlavo ancora. Ho sempre saputo che le parole esistevano per scongiurare le paure. Non sono stata abbandonata nell’infanzia. In fretta mi sono impadronita delle parole, in fretta e con l’applicazione ho dominato il loro intreccio.
Questo mi ha dato la parola facile. Ed efficace, nel senso che essa ha sempre fatto effetto. Le parole mi hanno messo al di sopra della paura. Con loro ho sconfitto, o sedotto in anticipo, i miei supposti nemici. Trasformati in vittime o in complici prima d’avermi potuto nuocere. A seconda delle circostanze, ho saputo parlare agli altri il linguaggio che essi attendevano: il loro.
La paura che mi aspetta al varco, ammassata da tanto tempo dietro il bastione che si sgretola. La parola mi ha lasciata, ma non ancora le parole, che vivono in me. Mi aspetta al varco una paura potente, preistorica, che mi insegna la paura.

*

Ho confezionato una crostata di mele. Dopo aver disposto sulla pasta le mele tagliate a fette, e prima di introdurre la piastra nel forno, sono uscita sulla soglia della casa, con la crostata in mano. L’aria era fredda e pura. Non faceva più giorno. I rami neri e nudi del castagno disegnavano una danza immobile davanti al cielo cupo, inondato di tovaglie malva e grigie. Davanti alla porta, esattamente l’una sopra l’altra, la viva virgola della luna ed il fremito della stella del pastore. Una così dolce e così imperiosa luce. Ho loro presentato come offerta la crostata di mele, domandando benedizione per essa. Poi sono rientrata e sono riuscita ad accendere il forno della vecchia cucina dopo che era “scoppiato” una prima volta.
Ed ho atteso.

*

Non posso più iniziare una giornata senza leggere un poema. Prima, non sapevo leggere la poesia. Mi ricordo che il poema si svolgeva davanti a me, come dall’altro lato di una insormontabile finestra. Nel migliore dei casi, la poesia mi impressionava. Pensavo di non essere sufficientemente intelligente per essa.
Adesso, mi sembra al contrario che essa sia consenso alla semplicità. Che essa non domandi, a chi la legge, che di abbandonarsi. Di lasciarsi andare. Scelgo testi in lingua straniera. Sulla pagina di sinistra è stampata il poema nella sua lingua, sulla pagina di destra nella sua traduzione. Ed ogni mattino, leggo una poema, o due, ad alta voce. Voglio dire: ad alta voce interiore e talvolta anche, nella lingua del poema, muovendo le mie labbra e disponendo la bocca come per proferirla. Perché, anche se sono impotente a farla suonare, la lingua continua a vivere in me. E a sentire così lo spazio interiore della mia bocca variare seguendo i suoni della lingua straniera, quelli che nessuna abitudine mi ha reso familiari, mi ridà, più forte di prima, il sentimento della carne del linguaggio. Solo dopo vado al poema tradotto. Il senso allora offerto mi sembra il figlio possibile, tra gli altri, della mia prima e carnale lettura.
Mi è anche successo dopo qualche giorno una cosa strana. Ho intrapreso la lettura di poemi russi. Non conosco niente del russo e i versi sulla pagina di sinistra, che allineano le lettere di un alfabeto che mi è sconosciuto, erano chiamati a restare interamente silenziosi per me. Ho tuttavia ostinatamente cominciato ogni mattino a percorrere con gli occhi, guidata dalla lunghezza di ogni verso, il taglio delle parole ed il segno di interpunzione, la pagina di sinistra prima di portarmi a quella di destra. E poco a poco ho avuto l’impressione di capire il poema, di leggerlo veramente in russo, come se credere così desse la sua ricompensa: sulla pagina di sinistra, il poema mi apre ad un segreto di cui, sulla pagina di destra, scopro un’incarnazione.

*

Dall’altro lato della finestra, aperta, respiro della sera. Canti di uccelli flessuosi ed eretti come i fiori del castagno.
Da questo lato, sola vita per rispondervi: la bambina che sono stata.

*

Grande rumore nella campagna. Strepito di macchine fuori e dentro. Di sicuro, bisogna tagliare l’erba, mietere, estirpare i rovi, ricevere la propria famiglia, morire a se stessi. Agitarsi ancora a lungo dopo come una mosca da un vetro all’altro, ubriaca del proprio ronzio. E quando ritorna il silenzio sull’immobilità, i grossi rotoli di paglia leggermente posati sul campo, il tronco dell’albero ancorato al suolo, al cielo il filo dell’uccello, dentro la separazione delle acque, finestra calma, prato ingiallito, abbandonarsi alla solitudine.

*

Prima di parlare, bisognerebbe raccogliere nell’oscurità delle palme richiuse sugli occhi il goccia a goccia delle parole povere, ristrette, delle parole senza slancio, paurose, il goccia a goccia delle piccole parole da cui si assenta ogni grazia.
Questo è quanto credo. Ma quando tolgo le mani dai miei occhi, sono ghermita dalla luce stesa al suolo, nella cornice della finestra.

*

“laggiù, fuori, un gran silenzio
come un dio che dorme”
nevica
tutta la notte, mentre noi dormiamo,
mentre io mi immergevo caldamente
nel silenzio immobile della notte
lentamente, minuziosamente
cadevano
migliaia di fiocchi
fini come piuma di pulcino
si stavano riunendo, ricoprendo gli uni con gli altri
sull’erba
la strada
gli alberi
le siepi
il pozzo
il cancello
la ruota della mola
i recinti
gli scalini
sui tetti e i camini
questa mattina mi hai presa nelle
tue braccia, mi hai portato come
se fossi un bambino
mi hai condotto nella stanza dove le imposte
erano aperte, mi avevi detto
“tieni gli occhi chiusi”
mi hai detto “apri gli occhi”
e mi hai fatto dono
di tutto l’inatteso
di tutta la distesa
questa pura schiuma
bianca e di luce
tra i ramoscelli neri

*

L’acqua blu della sera. Circola tra i rami dell’albero. Le foglie dell’albero , galleggiano, impercettibilmente sollevate, sullo specchio d’acqua verticale e immobile.

*

Ho dipinto l’acqua blu della sera. Con pazienza e vigilanza – quanta ne ho potuto esercitare.
Ti ho mostrato il mio piccolo dipinto.
Tu l’hai guardato a lungo.

 

 

*

Traduzione di Giancarlo Cavallo
La foto di copertina è di Olivier Rolle, le altre di Pier Paolo Iagulli. La registrazione è stata realizzata nel corso de “Il cammino delle comete” (Pistoia, 2002).

Christiane Veschambre

Les Mots pauvres

(extraits)

 

*

L’autre matin je me suis réveillée muette. Je ne m’en suis pas aperçue tout de suite parce que j’étais seule dans la chambre. Je me sentais heureuse de la journée à vivre. Emplie d’un sentiment de liberté et de légèreté. Je me suis étirée en bâillant, sans bruit, je me suis levée, je suis allée décrocher un vêtement dans la salle de bains et je me suis dirigée vers la cuisine où je t’entendais chanter. J’ai poussé la porte, je t’ai souri, tu m’as appelée par mon nom, et je t’ai répondu par le tien. C’est-à-dire que j’ai ouvert la bouche, j’ai formé avec mes lèvres les deux syllabes aimées, et aucun son n’est sorti. Tu as ri, d’abord, de me voir répéter ma mimique silencieuse, tu t’es avancé vers moi pour me prendre dans tes bras et tu t’es arrêté. Tu m’as demandé ce que j’avais, je n’ai pas pu te répondre. Finalement j’ai pris sur le buffet le papier où on inscrit les commissions et j’ai écrit : « Je ne peux plus parler. » Et je me suis mise à pleurer.

*

Tu m’as demandé si je t’entendais bien. Je t’ai fait signe que oui. Tu m’as dit alors que ce n’était rien, que j’avais dû attraper froid sans m’en rendre compte, que c’était sans doute une sévère extinction de voix. Tu es allé me chercher des comprimés dans ton cabinet. Tu m’as serrée très fort dans tes bras, et quand j’ai posé ma main sur ta poitrine, à hauteur du cœur, je n’ai pas eu le temps de souffrir de ne pouvoir, comme d’habitude, prononcer ton nom d’amour : à travers la laine du chandail, la sensation sous ma paume des pulsations, de leur rythme et de leur volume, celle de la chaleur du sang enclos, m’a tout à coup entièrement absorbée.
Avant que tu ne partes rendre visite aux malades, je t’ai souri.

*

Au bout d’une semaine, il a bien fallu accepter le fait qu’il ne s’agissait pas d’une extinction de voix. Mais je le savais depuis le début. Et je crois que tu l’as su très vite aussi. Je suis pourtant, sur tes conseils, allée voir un spécialiste qui a ausculté ma gorge, examiné, avec une petite lampe accrochée au front, le fond de ma cavité buccale, a contemplé longtemps les radiographies où figuraient les fuseaux de mes cordes vocales, m’a fait passer plusieurs tests d’audition. A la fin, il m’a déclaré que je n’avais rien, que tout allait bien (il me tapotait le dos), que mes difficultés actuelles n’étaient pas de son ressort, que je devrais peut-être voir d’un autre côté. Comme, bien sûr, je ne lui répondais rien, il m’a montré du doigt, de la même façon que si j’avais été sourde, le montant de ses honoraires qu’il avait inscrit sur une feuille.
Je me suis sentie soulagée de me retrouver dehors, parce que je m’étais ennuyée, et surtout parce que j’échappais à la forte odeur de cet homme qui sentait, oui c’est ça, qui sentait le chien.

*

Aujourd’hui j’ai passé ma journée à pleurer. J’ai pleuré dès le réveil, j’ai essayé de me lever mais je me suis tout de suite recouchée et suis restée, portes closes, dans la chambre.
Je pleure sans bruit, sauf celui des reniflements et des froissements de mouchoirs en papier. Je sanglote silencieusement. J’ai pleuré autant que j’en avais besoin, et j’en avais un besoin très vaste. Je n’avais jamais pleuré en aussi grande quantité, aussi profondément, aussi tristement. Aujourd’hui était une journée d’hiver, il a fait nuit tard le matin, il a fait nuit tôt le soir.
En m’endormant, les narines gercées et les yeux gonflés, j’ai rêvé que j’étais debout sur une étagère du mur, et que sortait de ma gorge le chant d’un oiseau de nuit.

*

Je ne peux donc plus travailler. Puisque l’essentiel de mon travail consistait à parler. En échange, de l’argent était versé sur mon compte en banque. Cette parole-là m’entretenait. J’ai pris plaisir à imaginer ce qui se passerait si je me rendais, comme d’habitude, sur mon lieu de travail et y demeurais silencieuse. L’étonnement, l’incompréhension et, pour finir, le scandale que cela susciterait. Le désordre provoqué par la contrainte où je suis de me taire. Et j’ai prolongé ma fantaisie en me représentant le professeur inexorablement silencieux devant ses élèves, le journaliste de télévision mimant l’annonce des nouvelles quotidiennes, la cour d’assises parcourue du seul bruit de manches envolées des magistrats mutiques, l’universitaire réduit, au moment de la soutenir, à voir s’effondrer sa thèse par défaut de répartie. Et bien d’autres lieux que je me suis amusée à imaginer paralysés par une perte de parole aussi soudaine que celle qui m’est échue.
Cette rêverie a été ma première délivrance.

*

Je ne m’habitue pas à ne plus pouvoir parler, à ce qu’aucun son ne sorte de ma bouche. J’attends que cela me revienne. Je souffre.
Mais mon silence me fait du bien.

*

Je vais d’émotion en émotion. En disant cela, je vois une rivière qu’on franchit à gué en sautant d’une pierre à l’autre. Entre deux pierres, c’est le vide. Le pied perçoit chacune dans sa forme différente, anguleuse ou ronde, plane ou inclinée. Une arête ou une petite plate-forme où se reposer. A chaque fois se renouvelle le contact avec la fraîcheur née de l’eau, à chaque fois quelque chose vit à la plante du pied, qui se propage à tout le corps.
Je ne sais pas pourquoi c’est cette image qui me vient pour dire les émotions qui s’emparent de moi à un rythme irrégulier, imprévisible. Ce ne sont pas des mouvements superficiels, des manifestations de l’émotivité, mais des moments où s’approche le sentiment de la vie. Des moments vifs. Entre deux, c’est temps mort.

*

J’apprends la peur.
Je pense n’avoir pas eu d’enfance. Cette enfance où l’on est abandonné au surgissement. Je n’ai pas pu être paralysée, ou dévorée, par la peur. Incendiée, décomposée par l’inattendu. J’ai tout de suite paré à l’inconnu. J’ai toujours parlé.
Même quand je ne parlais pas encore. J’ai toujours su que les mots existaient pour conjurer les peurs. Je n’ai pas été abandonnée à l’enfance. Dans la hâte je me suis emparée des mots, dans la hâte et l’application j’ai maîtrisé leur tressage.
Ce qui m’a donné la parole facile. Et efficace, au sens où elle a toujours fait de l’effet. Les mots m’ont mise au-dessus de la peur. Par eux j’ai terrassé, ou séduit par avance, mes ennemis supposés. Transformés en victimes ou en complices avant d’avoir pu me nuire. Selon les circonstances, j’ai su parler aux autres le langage qu’ils attendaient : le leur.
La peur qui me guette, amassée depuis tant de temps derrière le rempart qui s’effrite. La parole m’a quittée, mais pas encore les mots, qui vivent en moi. Me guette une peur puissante, préhistorique, qui m’apprend la peur.

*

J’ai confectionné une tarte aux pommes. Après avoir disposé sur la pâte les pommes coupées en tranches, et avant de glisser la plaque dans le four, je suis sortie sur le seuil de la maison, la tarte à la main. L’air était froid et pur. Il ne faisait plus jour. Les branches noires et nues du marronnier dessinaient une danse immobile devant le ciel sombre, baigné de nappes mauves et grises. Devant la porte, exactement l’une au-dessus de l’autre, la vive virgule de la lune et le frémissement de l’étoile du berger. Une si douce et si impérieuse lumière. Je leur ai présenté en offrande la tarte aux pommes, demandant bénédiction pour elle. Puis je suis rentrée et j’ai réussi à allumer le four de la vieille cuisinière après qu’il a eu « explosé » une première fois.
Et j’ai attendu.

*

Je ne peux plus commencer ma journée sans lire un poème. Avant, je ne savais pas lire la poésie. Je me souviens que le poème se déroulait au-devant de moi, comme de l’autre côté d’une infranchissable fenêtre. Au mieux, la poésie m’impressionnait. Je pensais n’être pas suffisamment intelligente pour elle.
A présent, il me semble au contraire qu’elle est consentement à la simplicité. Qu’elle ne demande, à celui qui la lit, que de s’abandonner. De se quitter. Je choisis des textes de langue étrangère. Sur la page de gauche est imprimé le poème dans sa langue, sur la page de droite dans sa traduction. Et chaque matin, je lis un poème, ou deux, à haute voix. Je veux dire : à haute voix intérieure et parfois même, pour la langue du poème, en remuant mes lèvres et disposant ma bouche comme pour la proférer. Car, même si je suis impuissante à la faire sonner, la langue continue de vivre en moi. Et de sentir ainsi l’espace intérieur de ma bouche varier suivant les sons de la langue étrangère, ceux qu’aucune habitude ne m’a rendus familiers, me redonne, plus fort qu’avant, le sentiment de la chair du langage. Après seulement j’en viens au poème traduit. Le sens alors offert me semble l’enfant possible, parmi d’autres, de ma première et charnelle lecture.
Il m’arrive même depuis quelques jours une chose étrange. J’ai entrepris la lecture de poèmes russes. Je ne connais rien au russe et les vers sur la page de gauche, alignant les lettres d’un alphabet qui m’est inconnu, étaient appelés à rester entièrement silencieux pour moi. J’ai cependant obstinément commencé chaque matin par parcourir des yeux, guidée par la longueur de chaque vers, la coupe des mots et le signe de ponctuation, la page de gauche avant de me rendre à celle de droite. Et peu à peu j’ai eu l’impression d’entendre le poème, de le lire vraiment en russe, comme si faire ainsi confiance portait sa récompense : sur la page de gauche, le poème m’ouvre à un secret dont, sur la page de droite, je découvre une incarnation.

*

De l’autre côté de la fenêtre, ouverte, respiration du soir. Chants d’oiseaux flexibles et dressés comme les fleurs de marronnier.
De ce côté-ci, seule vie pour y répondre : l’enfant que j’ai été.

*

Grand bruit dans la campagne. Vacarme de machines au-dehors et au-dedans. Bien sûr, il faut couper l’herbe, moissonner, arracher les ronces, recevoir sa famille, mourir à soi. S’agiter longtemps après encore comme une mouche d’une vitre à l’autre, saoule de son bourdonnement. Et quand revient le silence sur l’immobilité, les gros rouleaux de paille légèrement posés sur le champ, le tronc de l’arbre ancré au sol, au ciel le fil de l’oiseau, au-dedans la séparation des eaux, fenêtre calme, pré jauni, se lâcher vers la solitude.

*

Avant de parler, il faudrait recueillir dans l’obscurité des paumes refermées sur les yeux le goutte-à-goutte des mots pauvres, des mots sans élan, peureux, le goutte-à-goutte des petits mots d’où s’absente toute grâce.
Telle est ma croyance. Mais lorsque j’ôte les mains de devant mes yeux, je suis saisie de la lumière couchée au sol, dans l’encadrement de la fenêtre.

*

Je me souviens de cela:
J’étais allée quelques jours chez mes parents dans la petite ville où, depuis une dizaine d’années, ils passaient leur retraite. Un soir je leur ai annoncé que nous ne dînerions pas dans la salle à manger de leur appartement, que je les invitais au restaurant. C’était l’été. La nuit était douce, légère, quand nous nous sommes assis autour d’une des tables disposées à la terrasse du meilleur établissement de la ville. Le vaste feuillage d’un large et haut platane flottait au-dessus de nous, une petite fontaine à l’éclairage soigné fredonnait à côté. A ma droite, ma mère, vêtue d’un petit gilet blanc en crochet et d’une robe à fleurs, attendait, passive comme une petite fille que sa mère entraînerait dans un endroit inconnu mais accueillant. Devant moi, mon père tentait de regarder tout autour de lui, n’osant bouger ni corps ni tête, les avant-bras posés droits sur les accoudoirs du fauteuil. Tous deux étaient fluets, silencieux, émouvants. Ce que ressentit la jeune serveuse qui nous apporta les apéritifs commandés et les petites friandises qui les accompagnaient. Ses mots simples et gentils, puis l’alcool dégusté, l’air tiède, détendirent mes parents qui commencèrent à parler. Nous disions notre plaisir du joli décor, de la belle soirée, de l’apéritif. Alors mon père, coude à présent posé sur la table et visage tourné vers sa femme:
“Ça fait longtemps qu’on regardait ici, en passant, mais on avait peur, hein Maman?”

*

« là-bas, dehors, un grand silence
comme un dieu qui dort »
il neige
toute la nuit, pendant que nous dormions,
pendant que je m’enfonçais chaudement
dans le silence immobile de la nuit
lentement, minutieusement
chutaient
des milliers de flocons
fins comme du duvet de poussin
venaient s’accoler, se recouvrir les uns les autres
sur l’herbe
la route
les arbres
les haies
le puits
la grille
la roue de la meule
les clôtures
les marches
sur les toits et les cheminées
ce matin tu m’as prise dans
tes bras, tu m’as portée comme
si j’étais un enfant
tu m’as amenée dans la pièce où les volets
étaient ouverts, tu m’avais dit
« garde les yeux fermés »
tu m’as dit « ouvre les yeux »
et tu m’as fait cadeau
de tout l’inattendu
de toute l’étendue
cette pure mousse
blanche et de lumière
entre les rameaux noirs

*

L’eau bleue du soir. Elle circule entre les branches de l’arbre. Les feuilles de l’arbre flottent, imperceptiblement soulevées, sur la nappe d’eau verticale et immobile.

*

J’ai peint l’eau bleue du soir. Avec patience et vigilance – ce que j’en ai pu exercer.
Je t’ai montré ma petite peinture.
Tu l’as longtemps regardée.

*

.
Christiane Veschambre 2
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Apr 1, 2015Redazione
Pablo Neruda: L'infinita / La infinitaIra Cohen: Immagina Jean Cocteau / Immagine Jean Cocteau

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8 years ago Le storieChristiane Vescambre, Le parole povere, Les mots pauvres714
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